martedì 5 aprile 2011

Recensione - MOONSORROW


MOONSORROW - Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa
(2011, Spinefarm)

Nonostante Metal Arci sia una webzine specializzata nella promozione del Metal italico e locale, non potevo esimermi dal recensire il nuovo lavoro della mia band Metal preferita in assoluto: i Moonsorrow. Il disco, dal titolo impronunciabile Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa è uscito da appena un mese e conferma gli altissimi risultati già raggiunti dai suoi predecessori. Voglio però introdurre un po’ i Moonsorrow a chi non li conosce, o li conosce poco. Nati in Finlandia come una band sostanzialmente di Black melodico, hanno successivamente modificato il loro genere in vista della pubblicazione del primo album, nel 2001: Suden Uni era un interessante connubio tra Viking e Black melodico, epico e trascinante, unito alla “humppa”, la tradizionale polka finnica. Anche i successivi dischi, di uno spessore progressivamente maggiore, percorsero i sentieri già battuti dall’album di debutto.
Poi il vento cambiò: il 2005 vide l’uscita di Verisakeet, pietra miliare del Viking Metal (e del Metal in generale). Qui la humppa non trova più ragione di esistere, così come l’allegria “tastierosa” che si era respirata fino ad allora. Le composizioni si fanno più lunghe (l’album era composto da 5 tracce di 10-15 minuti ciascuna) e complesse. Parlo infatti di “composizioni”, e non più di “canzoni”, in quanto soprattutto col successivo Viides Luku: Havitetty, composto da sole 2 tracce di mezz’ora ciascuna, risuona chiaro quanto la musica dei Moonsorrow non sia più catalogabile in nessuna categoria conosciuta fino a quel momento, e quanto le tracce che le compongono non vadano più ascoltate in macchina o mentre si gioca a qualche videogame ma necessitino di essere ascoltati con concentrazione e dedizione. Abbandonata l’epicità “tastierosa” delle band finlandesi di Metal estremo, si è passati ad un sound oscuro, di difficilissima assimilazione, rozzo, ruspante, viscerale e tragicamente malinconico. Doom? Sì, c’è qualcosa. Ma anche di Prog, di Black, e di Viking, il più squisito che si possa desiderare. Dopo il seguente Tulimyrsky, un ep di 70 minuti formato da un inedito (di 30 minuti, nda) e 4 vecchie tracce rivisitate, anche l’ultimissimo album prosegue il percorso iniziato con Verisakeet.
Quest’album è formato complessivamente da sette tracce, ma le “composizioni” vere e proprie sono solo quattro, intervallate da brevi intermezzi di fruscii di vento, zoccoli di cavalli, marce di eserciti, respiri affannosi, falò accesi nelle foreste (come era avvenuto anche in Verisakeet e Viides Luku: Havitetty, dove però suddetti intermezzi facevano parte integrante dei brani). Quattro brani, di una solennità e un’epicità crescente (MUINAISET è la mia preferita!). Chi conosce già la band non potrà non riconoscere il loro “marchio di fabbrica”, quell’epicità cadenzata, malinconica, che fa pensare ad un esercito stremato in cui la morte, più che una tragedia, rappresenta l’unica ancora di salvezza, di liberazione dalle sofferenze terrene. Difatti, anche i testi dei Moonsorrow si discostano non poco dalla tradizione Viking: non inneggiano alla guerra come fanno gli Amon Amarth, o i Thyrfing, bensì parlano della distruzione del mondo, della sofferenza umana, delle calamità naturali e della devastazione dell’ecosistema naturale, causati dalla guerra. La guerra vista, pertanto, non più come portatrice di gloria (Thyrfing) o come soluzione inevitabile per ottenere la libertà (Amon Amarth), bensì come un’inutile (e dannosissimo) sacrificio di risorse e di bellezze naturali, oltre che di vite umane. C’è da restare impressionati, veramente. C’è da specificare, tuttavia, che i testi sono cantati interamente in lingua madre, ma per fortuna (per chi compra l’originale) nei libretti non è mai mancata la traduzione in inglese di tutti i testi delle canzoni.
Tecnicamente, come già accennato prima, il disco riconferma quanto marcato dai due predecessori. Forse rispetto a loro risulta leggermente meno oscuro, meno riflessivo, ma in compenso è più epico e trascinante. Alla voce c’è sempre lui, il grande Ville Sorvali, autore di uno screaming sgraziato e lacerante, che fa storcere il naso di molti ma che a mio avviso rappresenta proprio la particolarità della band, che appunto celebra la distruzione dell’uomo causata dalla sua superbia e dal suo essere guerrafondaio, per via della sua ingordigia. La tastiera è onnipresente, forse anche più delle chitarre, ma anziché attenersi al “trallallero trallallà” dell’humppa Metal, qui ricopre un ruolo molto “ambient”, molto “atmospheric”, che dona vigore, spessore ed epicità ai brani. Rafforza in un modo del tutto unico la ruvidezza delle chitarre, ma lo fa molto spesso seguendo la linea e le note del basso. Sono un profano dei tecnicismi, lo ammetto, ma a mio avviso è un sistema del tutto unico e il risultato è sorprendente.
Coinvolgente, mai scontato, in grado di catturare fin dal primo ascolto ma nonostante ciò anche di offrire sempre qualcosa di nuovo ogni volta che lo si riascolta. L’epocale Verisakeet è e resterà sempre imbattibile, lo ammetto. Ma anche quest’ultima fatica targata Moonsorrow si difende benissimo e secondo me (basandomi sui miei gusti) sarà il disco più bello del 2011. Ecco, l’ho detta.

Grewon

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